Nazionalismo letterario

«La Nuova Europa», settimanale di politica e letteratura, Roma, 11 febbraio 1945, p. 5.

NAZIONALISMO LETTERARIO

Nel 1518 all’umanista belga Longolio venne rifiutata la cittadinanza romana come a barbaro che aveva osato da giovane paragonare la Francia all’Italia e tanta fu la violenza dei letterati romani insorti, con le piú belle citazioni imperiali e pieni di boria romulea, che il povero studioso dové abbandonare in gran fretta la città per non farvi mai ritorno. È questo episodio uno dei piú chiari esempi di quel nazionalismo letterario, di quella boria italo-classicista che, sviluppatasi soprattutto nel Rinascimento, è andata diversamente colorandosi e facendosi piú o meno insopportabile fino all’esplosione piú pericolosa e ridicolmente violenta del periodo nazional-fascista.

Ma mentre nel pieno Rinascimento, quando questo aveva già dato i suoi frutti letterari piú alti, lo sciovinismo letterario inaridiva le possibilità della nostra poesia con un orgoglioso classicismo nazionalistico, poco prima il piú grande poeta del cinquecento, l’Ariosto, risentiva nel suo poema tutto il malioso mondo romanzo, quasi riferimento sicuro ai suoi sogni, al suo bisogno di viaggio fantastico, come prima un Petrarca, un Boccaccio, un Dante, figli di quella unità medievale che un Benda può rimpiangere in nome di un universalismo in verità piuttosto astratto e razionalistico, avevano riassunto nell’opera della loro fantasia la varia esperienza stilistica del trobar clus provenzale, delle fiorenti allegorie Île de France, della passione avventurosa dei vari «galeotti» bretoni.

In un generoso scambio di fantasmi poetici, di moralità favolose, la letteratura italiana si era nutrita in un respiro piú vasto che non era mancato al Rinascimento nel suo sogno piú luminoso dell’homo novus che solo il provincialismo letterario veniva contrapponendo al barbaro.

È l’isolamento italiano del seicento che distaccò la nostra letteratura dal contatto con le sorgenti piú fresche di cultura libera dell’Europa occidentale ed avviò uno sterile ripensamento su schemi letterari anchilosati di origine classicista e nei limiti di una poetica controriformista da cui gli sfoghi di nazionalismo retorico dal Testi al Filicaia acquistano una luce assai diversa da quella sotto cui li potrebbe considerare una storia che cerchi documenti di un risveglio vitale italiano in un’epoca considerata di decadenza. In realtà quelle canzoni tra lamentose e orgogliose sono ben sulla linea di una pura retorica di letterati attaccati ad un primato che l’Italia piú non aveva nell’Europa di allora e perciò retrivi, fuori delle concrete possibilità storiche del loro paese e della loro letteratura. Quelli che invece fecero l’essenziale per un rinnovamento italiano e proprio per un riaffermarsi della nostra letteratura sia nel suo intimo valore sia nel suo prestigio, furono gli europeisti del settecento che, senza timori di contagi barbari ed incuranti delle gelosie tra gesuiti francesi ed italiani, delle querelles di primati retorici (la contesa Bonhours-Orsi) circa la gloria passata e la perfezione classicista, si aprirono allo studio e alla comprensione delle vitali correnti di pensiero e di gusto che facevano capo all’illuminismo sensitivo, cercarono di riportare le premesse culturali della nostra letteratura oltre lo sfasamento provinciale del seicento (in cui la crisi era stata appunto crisi di isolamento) e di dare al nuovo concetto di letterato e di poesia un nutrimento di vigoroso pensiero, di concreta moralità: ecco cosí l’opera generosa e perfino ingenuamente europeistica («i vari giornali fanno che gli uomini che prima erano Romani, Fiorentini, Genovesi o Lombardi, ora sieno tutti press’a poco Europei», scriveva il «Caffè») dei giornali letterari che dal piú minuzioso rendiconto di novità scientifiche, archeologiche, numismatiche, linguistiche alle piú ardite discussioni di problemi filosofici, economici, sociali, ricostruivano l’intelaiatura della cultura italiana e preparavano proprio in opposizione alla figura del retore sciovinistico astratto ed avulso dalla vita del suo tempo, la figura del letterato pariniano ed alfieriano in cui la nuova coscienza concretamente nazionale sorge su di una esperienza di testi e di cultura europea.

Esperienza varia e perfino accresciuta da quella piú immediata distintiva degli avventurieri tipo Casanova, esperienza di cui vivrà la nostra letteratura per molti decenni. Dall’esperienza della critica inglese del Baretti a quella della poesia tedesca del Bertola tutta la nostra letteratura si arricchisce, nella seconda metà del settecento, di motivi, di suggerimenti che se inevitabilmente producono anche piatte imitazioni e correnti puramente di moda preromantica, provocano però un originale nascere di atteggiamenti letterari nuovi, di una lingua poetica che pur non abbandonando l’alta tradizione petrarchesco-tassesca si è resa capace di adeguare moti diversi, di sensibilità insospettate. Si pensi per tutti alla tradizione cesarottiana dell’Ossian che per piú di un cinquantennio condizionò tutte le espressioni poetiche dei nostri scrittori. Né Foscolo né Leopardi né Manzoni si concepirebbero pur nel loro nuovo spirito nazionale (frutto anch’esso non tanto di un indigeno sciovinismo accademico quanto di un complesso movimento storico europeo) senza l’europeismo settecentesco; e proprio il nostro grande romanticismo neoclassico con la sua coscienza europea e il suo acuto amore per la tradizione letteraria nel suo senso piú profondo può esser l’esempio di un equilibrato atteggiamento non pauroso di contatti e non fermo a pedisseque imitazioni di moda. Ma il nazionalismo letterario che attraverso le polemiche preromantiche e romantiche aveva mescolato il suo veleno accademico e retorico (bando al romanticismo perché straniero al genio italiano giudicato naturalmente superiore e inarrivabile), non aveva perso la sua vitalità e nella generosa aura romantica non è difficile ad un orecchio esercitato distinguere il timbro della sua voce da quello del concreto spirito nazionale romantico: lo sentiamo cosí nel Primato giobertiano che si rivolge al passato, non lo sentiamo in Mazzini in cui ogni boria di letterato sciovinista è annullata nell’entusiasmo attivo di nazioni in funzione europea.

A mano a mano che la forza originale del romanticismo va scemando, la letteratura italiana tende nuovamente a rinchiudersi, ad isolarsi provincialmente ed è perciò che lo storico avverte dopo la metà dell’ottocento un nuovo sfasamento di gusto e di freschezza letteraria, proprio mentre prevale di nuovo un nazionalismo borioso, appoggiato sul passato, estremamente retorico che pare quasi dover diventare la piú tipica sorgente di espressione poetica nell’Italia carducciana. E non è senza significato che mentre nel 1877 escono le Rime barbare, un anno prima era uscito l’Après midi d’un faune, uno dei testi della nuova poesia europea, del nuovo gusto simbolista che agirà da noi solo all’inizio del nostro secolo, quando una nuova ondata europea dalla «Voce» in poi vinse le resistenze dei tradizionalisti ad ogni costo e rinnovò l’aria che alimentò la nostra poesia, la nostra letteratura contemporanea.

Non mancarono tutte le varie sette di letterati nazionalisti dai dannunziani ai fascisti ai tradizionalisti accademici alla Ojetti, non mancarono le piú sciocche esplosioni di furore antieuropeo ed anzi le competizioni letterarie si svolgevano quasi sempre intorno al tema «tradizione e rivoluzione», «italianismo ed europeismo». Ma forse proprio perché divenuto ufficiale il nazionalismo letterario e confuso con una propaganda ufficiale che era di per sé sinonimo di malgusto, ha avuto ben poca presa nelle nuove generazioni letterarie. E noi pensiamo che se si proponesse ora il tema della lunga discussione sulla tradizione e l’Europa (che adesso è diventata il mondo), i letterati italiani non esiterebbero a rispondere che da uno sciocco isolamento, da un culto onanistico del passato, da una boria nazionalistica, la nostra letteratura non ha nulla di buono da attendere e che la migliore tradizione è quella dello scrittore che continuamente la rinnova e la nutrisce con un’esperienza piú vasta, senza porre limiti alla sua ispirazione, alla sua materia poetica, alla sua cultura letteraria. E nessuno scrittore vorrà piú fare sua l’impresa «arte italiana» che fu veramente tale quanto piú fu spregiudicata e coraggiosa.